Ecco la tessera di riconoscimento rilasciata dalla Giunta Provvisoria di Governo dell'Ossola a mio padre:
Allegato:
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Da notare che nell'intestazione non si fa riferimento al CLN.
E qui perdonatemi un lungo OT.
Non ho mai raccontato in pubblico la storia di mio padre ed ora, prima che anch'io non possa più raccontarla, ho deciso di esternare le poche notizie che faticosamente ero riuscito a strappargli: su queste vicende fu sempre molto riservato, tanto che questa tessera l'ho vista per la prima volta quasi quindici anni dopo che era mancato, quando aprii "il cassetto delle carte" dopo che era mancata anche mia madre. Era nato nel 1910, secondo di sette figli maschi di un falegname della provincia di Napoli. Dopo le elementari cominciò a frequentare una scuola tecnica, ma il padre (di cui porto il nome e dal quale ho ereditato un aspetto del carattere: in paese era noto come "Mast' Michele o 'ncazzus") lo mise a lavorare in bottega con lui, come aveva già fatto col primogenito, e dopo il secondo anno abbandonò gli studi. La sua abilità manuale era notevole e a 16 anni era già in grado di costruire interamente da solo un infisso modanato, con attrezzature solo manuali. Una volta che eravamo in via Chiaia a Napoli, mi disse: "vieni, ti porto a vedere una cosa"; da una strada laterale raggiungemmo una piazzetta dove c'era un palazzotto nobiliare e indicandomelo mi disse, con molto orgoglio: "Tutte le porte e finestre della casa del barone le ho fatte io quando non avevo ancora 17 anni". Il suo futuro a questo punto sarebbe stato segnato ma il mondo della provincia gli stava stretto, baroni che rifacevano casa non ne capitavano più quindi le entrate era magrissime, e nel 1931 partecipò ad un concorso per l'arruolamento in Polizia e fu ammesso. Fece il corso a Roma e durante il corso accadde un episodio che, sposato con il naturale scetticismo e disincanto napoletano, gli fece assumere un certo atteggiamento. Gli allievi venivano portati a fare il "pattuglione", ovvero i controlli notturni in una pattuglia rinforzata. In una di queste occasioni il capo pattuglia aveva ricevuto l'ordine dal commissario di portare in commissariato almeno 5 fermati, ma era inverno e in giro non c'era praticamente nessuno per cui quando stava per finire l'orario della pattuglia avevano un solo fermato, un ubriaco senza documenti, al che il capo pattuglia trovò la soluzione: portò gli uomini nei pressi di una grande panetteria, era l'ora in cui arrivavano i lavoranti per cui per strada passava sicuramente gente a cui chiedere i documenti, che solo qualcuno aveva con se (se pure li aveva!) e rimediarono così gli altri quattro poveri cristi per soddisfare l'ordine del commissario, infischiandosene del fatto che quei quattro quel giorno non avrebbero avuto la paga: quando mi raccontò questo episodio concluse dicendo: "quella notte capii che c'era qualcosa di sbagliato in quello che sembrava tutto perfetto". A fine corso, fu mandato alla polizia di frontiera al colle di Tenda, dove rimase meno di un anno, abbastanza comunque per imparare a parlare un po' di francese essenziale. Nel 1933 era a Domodossola, sempre nella polizia di frontiera e il suo servizio consisteva nel controllo dei passaporti a bordo dei treni sia della linea del Sempione che di quella per Locarno: il suo francese, benché minimo, lo faceva essere quasi sempre nel gruppo che faceva i controlli sull'Orient Express. Mentre era a Domodossola accadde un secondo episodio: un giorno il commissario convocò tutto il personale del commissariato e lesse loro una lettera a lui indirizzata e spedita dal federale di Novara, che lo esortava a far iscrivere al PNF tutto il personale. Finita la lettura disse: "Avete giurato fedeltà al re e a me questo basta. Chi vuole iscriversi al PNF lo faccia, ma non venga a dirmelo perché non mi interessa". E se l'episodio dei fornai gli aveva messo dei dubbi, l'atteggiamento di chi per lui rappresentava l'autorità statale gli diede la definiva risposta: il fascismo non era lo stato e nemmeno l'autorità, era solo il potere. Il terzo episodio accadde nel 1944: se avete avuto la pazienza di leggere le 29 pagine del pdf postato da Luigi (che ringrazio vivamente) sapete che man mano che i partigiani aumentavano il loro controllo sull'Ossola, aumentava il numero di treni da loro fermati con il prelievo dei militi di scorta per fare scambio di prigionieri (o rappresaglie). Nel 1944 i treni internazionali sulla linea del Sempione erano ormai pochissimi (se pure ce n'erano ancora) per cui il controllo passaporti occupava poco personale e il loro tempo venne riempito con la "repressione del mercato nero". Questa azione consisteva nel controllare i passeggeri dei treni, soprattutto della linea Domodossola-Novara, e il "mercato nero" da reprimere era costituito da donne delle "valli" che andavano nei paesi della "bassa" a barattare qualche forma di formaggio o panetto di burro con un sacchetto di riso, insomma un baratto per la sopravvivenza (chi faceva il vero mercato nero si muoveva con i camion pieni!). In uno di questi turni, nella pattuglia mio padre era l'unico della polizia e il resto erano della milizia: questi si misero nello scompartimento del capotreno a "decidere sul da farsi" e mandarono mio padre a fare i controlli. Era una corsa da Novara a Domodossola, i passeggeri pochissimi e in un vagone c'erano tre donne che se ne stavano a chiacchierare con i loro sacchetti di riso in bella vista sul sedile. Erano vestite in costume tradizionale (come si è usato nelle valli fino agli anni '60) quindi con ampie gonne fino alle caviglie e mio padre disse loro che era meglio se il riso lo mettevano sotto il sedile e allargavano bene le gonne per non farlo vedere, aggiungendo "che se lo vedono quelli della milizia come minimo ve lo sequestrano". Alla stazione di Piedimulera, che è allo sbocco della valle Anzasca, il treno fu circondato dai partigiani: un gruppo prelevò gli uomini della milizia che erano ancora tutti insieme, mentre un gruppo che perlustrava il resto del treno prese mio padre. A questo punto i partigiani lasciarono ripartire il treno, al che una delle donne del riso si affacciò al finestrino e si rivolse a quello che sembrava essere il capo del gruppo e, chiamandolo per nome, gli gridò "Lasal na cul lì che l'è brau" ovvero "Lascialo andare quello lì che è bravo". Al che il partigiano si rivolse a mio padre dicendogli, in dialetto "La Maria (la chiamo così ma so il suo vero nome, come quello del partigiano) dice che sei bravo e lei non dice bugie, perciò ti lascio andare", gli prese la pistola e la stilografica e se ne andò con i suoi uomini. Certamente il fatto che fosse "bravo" era diventato noto nell'ambiente e quando si instaurò la Giunta provvisoria a mio padre non fu chiesto se voleva lasciare il territorio liberato ma se voleva servire nel corpo di polizia: da qui la tessera di cui sopra. Alla rioccupazione dell'Ossola, mio padre cercò rifugio in Svizzera per sfuggire ad eventuali ritorsioni. Su questo fu sempre molto laconico, perché era certamente a disagio nel ripensare che aveva lasciato mia madre sola, senza risorse, con me di nemmeno due mesi: non ho mai saputo da quale valle aveva raggiunto il confine e so solo che fu internato a Sion e che lavorò all'aperto fino a quando i vagonetti della Decauville con cui gli internati del campo portavano la ghiaia per sistemare la sponda del Rodano non rimasero incollati ai binari per il gelo. A quel punto fu mandato a lavorare presso un falegname che, entusiasta della sua abilità, al momento del ritorno in Italia cercò invano di convincerlo a rimanere a lavorare con lui. Mi sono spesso proposto di andare a vedere l'Archivio Federale di Berna, dove c'è un cospicuo fondo sugli internati di entrambe le guerre, con la speranza di trovare sue tracce "ufficiali", ma Berna non è esattamente dietro l'angolo di casa, una ricerca del genere può richiedere settimane e il tutto è rimasto nella lunga lista delle "cose da fare".
Michele