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MessaggioInviato: 15/10/2016, 21:30 
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Iscritto il: 15/10/2016, 20:41
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Ho recentemente rinvenuto un foglietto contro la dichiarazione di guerra alla Francia. Da quanto manoscritto al tergo sembrerebbe lanciato sulla capitale il 13.6.1940 forse utilizzando appareccchi a lungo raggio. Ero a conoscenza della tenace e micidiale resistenza opposta sulle alpi occidentali, a Mentone e del bombardamento navale di Genova, ma mai avevo sentito di questa azione degna di D'Annunzio . Qualche socio mi può dare notizie ?


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MessaggioInviato: 15/10/2016, 21:55 
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Località: COLLEGNO (TORINO)
Innanzitutto Aldo 121 ti do il benvenuto nel nostro Forum e non posso notare l'interessante volantino avio-lanciato sulla Capitale, di cui purtroppo non ti posso dare informazioni a riguardo, poichè non l'avevo mai visto. Complimenti per il ritrovamento, e speriamo che qualche amico del Forum ne sappia qualcosa in merito. Distinti saluti Marangoni Riccardo.


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MessaggioInviato: 15/10/2016, 23:25 
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Iscritto il: 19/05/2015, 19:41
Messaggi: 2759
Località: COLLEGNO (TORINO)
Da una ricerca sul web ho trovato questo articolo denominato LA TERZA REPUBBLICA, in cui è citato un volantinaggio su Roma da parte di un velivolo Francese, che vado a postare ed in aggiunta ho trovato anche quanto segue in un forum specializzato. Distinti saluti Marangoni Riccardo.

L'attacco dimostrativo avvenne alle nella notte del 12 giugno,
e fu condotto da un quadrimotore Farman F.222 (un bombardiere usato anche
come trasporto civile, infatti quello in questione era il militarizzato ex
F-ARIN battezzato "Jules Verne") dalla quota di 6.000 m. L'aereo non venne
intercettato dalla difesa di Roma (51° Stormo CT a Ciampino Sud), e tornò in
Francia senza danni come dal suo precedente raid, compiuto nella notte fra
il 7 e l'8 giugno 1940, su Berlino, dove sganciò 2.000 kg di bombe.


Nella notte tra il 15 e 16 giugno il Farman 223.4 Jules Verne" raggiunge
il cielo di Roma con questi volantini:

"Il Duce ha voluto la guerra ?. Eccola ! La Francia non ha niente contro
di voi. Fermatevi! La Francia si fermerà. Donne d'Italia ! Nessuno ha
attaccato l'Italia. I vostri figli, i vostri mariti, i vostri fidanzati
non sono partiti per diferndere l'italia. Soffrono , muoiono per
soddisfare l'orgoglio di un uomo. Vittoriosi o vinti, avrete la fame, la
miseria, la schiavitù."




L'AGONIA DELLA TERZA REPUBBLICA di ROBERTO POGGI

Nella tarda serata del 16 giugno 1940 Pétain ottenne dal Presidente Lebrun l'incarico di formare un nuovo governo. Senza indugi il Maresciallo estrasse dalla tasca la lista dei Ministri del suo governo. Tale prontezza alimentò la tesi gaullista della congiura di palazzo, tesi negata con decisione dallo studioso americano Robert O. Paxton. Persino il Procuratore Generale che nel 1945 fu incaricato di istruire il processo contro Pétain dovette mettere da parte il capo d'accusa inizialmente formulato, cioè complotto fomentato da lungo tempo contro la Repubblica.
Il governo Pètain fu costituito in un momento di fortissima tensione, ma nel pieno rispetto delle forme costituzionali. Dalla nuova compagine ministeriale furono esclusi soltanto gli oppositori più tenaci dell'armistizio, come Mandel, senza tuttavia rinunciare all'imperativo dell'unità nazionale e quindi al sostegno di un arco politico molto ampio, dai conservatori ai socialisti. Pierre Laval, il politico destinato ad incarnare tutte le ambiguità del regime di Vichy, nonostante potesse vantare ottime relazioni con gli ambienti diplomatici italiani e tedeschi, fu escluso inizialmente dal governo per non comprometterne l'equilibrio. Pétain sarebbe anche stato disposto ad avvalersi della sua collaborazione, infatti gli offrì prima il Ministero della Giustizia e poi persino quello degli Esteri, ma la ferma opposizione di Weygand, che considerava troppo ingombrante l'immagine anglofoba di Laval, finì per prevalere.

Il sollievo e la gratitudine, ampiamente documentati dalle testimonianze, con cui larghissima parte della popolazione e dei combattenti accolse il comunicato letto alla radio dal Maresciallo a mezzogiorno del 17 giugno costituisce la prova più evidente che l'avvicendamento tra Reynaud e Pétain non fu il risultato del complotto di un pugno di disfattisti, ma corrispose al sentimento più profondo della Francia in quel momento.
Nel suo primo appello ai francesi, l'eroe di Verdun preferì impossessarsi dell'immagine del redentore della Patria umiliata e ferita piuttosto che abbandonarsi alla polemica contro i responsabili politici del disastro militare. Richiamò i valori dell'unità e della fede nel destino della Francia per evocare, pur in circostanze drammatiche, una vaga prospettiva di riscatto.
"Francesi, in seguito all'appello del Presidente della Repubblica, io assumo a partire da oggi la direzione del governo della Francia. Certo dell'affetto del nostro ammirevole esercito che lotta con un eroismo degno delle sue lunghe tradizioni militari contro un nemico superiore in numero ed armi, certo che esso attraverso la sua magnifica resistenza ha assolto ai propri doveri nei confronti dei nostri alleati, io faccio dono alla Francia della mia persona per attenuare la sua sofferenza. In queste ore dolorose io penso agli sfortunati rifugiati che, nella miseria più estrema, solcano le nostre strade. Io esprimo loro la mia compassione e la mia sollecitudine. Con il cuore stretto io vi dico che oggi si deve cessare il combattimento. Mi sono rivolto questa notte all'avversario per domandargli se è pronto a ricercare con noi, tra soldati, dopo la lotta e nell'onore, i mezzi per porre termine alle ostilità. Che tutti i francesi si stringano attorno al governo che presiedo durante queste dure prove e facciano tacere la loro angoscia per non ascoltare che la loro fede nel destino della patria."
Milioni di francesi atterriti nelle loro case oppure in fuga dalle truppe tedesche interpretarono le parole del Maresciallo come la fine di un incubo e l'inizio di una dolorosa, ma necessaria, espiazione.

Il 18 giugno dai microfoni di Radio Londra il Generale De Gaulle, un Sottosegretario semisconosciuto di un governo il cui Presidente si era appena dimesso, invitò i francesi a non rassegnarsi alla sconfitta e a continuare la lotta. Ma le sue parole non ebbero né la stessa diffusione, né lo stesso impatto sull'opinione pubblica di quelle pronunciate da Pétain; rimasero la reazione coraggiosa e velleitaria di un ufficiale troppo orgoglioso per accettare la realtà dei fatti e non poterono modificare, almeno nell'immediato, il corso della politica francese.
In quelle ore, per la maggioranza dei francesi due fatti erano incontrovertibili: la guerra era finita e la Germania, purtroppo, l'aveva vinta.
La nota, inoltrata dal Ministro degli Esteri Baudouin nelle prime ore del 17 giugno a Berlino, attraverso l'ambasciatore spagnolo Lequerica, ed a Roma, attraverso il Nunzio apostolico Monsignor Valeri, contenente la richiesta delle condizioni di armistizio non arrestò il conflitto; anzi convinse Hitler e Mussolini della necessità di aumentare la pressione militare sulla Francia.

La Wermacht nella sola giornata del 17 avanzò di ben 125 chilometri; il 18 giugno le prime avanguardia tedesche giunsero alle porte di Bordeaux che due giorni più tardi subì il primo bombardamento.
Fino al 17 giugno l'esercito italiano, nonostante la sua netta superiorità numerica, non aveva creato molte preoccupazioni al Generale Olry, comandante dell'Armata delle Alpi. Dalla dichiarazione di guerra, nel corso di alcune scaramucce gli italiani avevano subìto alcune decine di perdite e fatto appena cinque prigionieri, quattro dei quali a causa di un
errore del loro comando che li aveva lasciati isolati in una posizione particolarmente esposta; avevano sganciato qualche bomba su Marsiglia, Tolone e Cannes e sugli aeroporti della Corsica, dando prova che la pericolosità dell'aviazione fascista era una delle tante leggende create dalla propaganda; avevano colato a picco un sommergibile, ma non erano stati in grado né di impedire alla flotta francese di bombardare Genova e Savona né di proteggere Torino dalle incursioni aeree. Un velivolo francese aveva persino potuto lanciare indisturbato volantini su Roma.

Dopo il 17 giugno il dilagare delle truppe tedesche anche in direzione del Rodano minacciò lo schieramento francese sulle Alpi, che venne a trovarsi stretto in una tenaglia. Il 19 giugno, dopo che Berlino aveva fatto sapere di essere disposta a far conoscere le sue condizioni per la firma dell'armistizio, Pétain ordinò al Generale Olry di abbandonare Lione e la linea difensiva frettolosamente approntata sul Rodano e di ripiegare con le sue truppe verso l'Isère. Tra il 20 ed il 21 giugno anche le divisioni italiane passarono finalmente all'offensiva contro gli avamposti francesi sulle Alpi.
Mussolini si aspettava grandi risultati a buon mercato, era convinto di poter trarre il massimo vantaggio territoriale dall'evidente disgregazione dell'esercito francese. Non immaginava che il governo Pétain fosse invece quanto mai determinato a limitare l'avidità italiana per preservare almeno al sud un brandello di sovranità, pertanto organizzò con approssimazione e leggerezza il suo attacco sul fronte alpino.
Il 20 giugno le truppe italiane fallirono nel tentativo di espugnare il fortino di ponte San Luigi lungo la linea di confine nei pressi di Ventimiglia. Questo primo scacco non bastò a far desistere Mussolini dall'impegno assunto con Hitler a Monaco, cioè riunire i loro rispettivi eserciti a Chambery, ma gli suggerì di ridurre il fronte dell'offensiva al settore dal Monte Bianco al Granero. La cosiddetta "operazione B" si riduceva ad un azzardato tentativo di aprirsi con i carri armati e le truppe motorizzate un passaggio a quota 2153, dominata da vette intorno ai 3000 metri e difesa da un robusto sistema di forti dotati di artiglieria. Lo sfondamento del Piccolo san Bernardo avrebbe dovuto avvenire con il concorso minimo dell'artiglieria, i bombardamenti aerei avrebbero dovuto sostituire l'indispensabile volume di fuoco dei cannoni.
Le condizioni meteorologiche furono pessime il 21 giugno ed i bombardamenti aerei italiani risultarono del tutto inefficaci, consentendo così ai francesi di resistere molto più tenacemente di quanto Mussolini avesse previsto.
Il bilancio dell'"operazione B" alla fine del primo giorno di combattimenti fu sconsolante per gli italiani: una avanzata di poche centinaia di metri su di un terreno desolato, bloccata da forze avversarie esigue, ma agguerrite e soprattutto ben posizionate e protette da bunker ed opere difensive in cemento armato. Le altre puntate offensive nei settori del Moncenisio-Bardonecchia, Monginevro e Germanasca-Val Pellice non ebbero miglior fortuna.
Umiliato e rancoroso verso lo scarso spirito bellico dimostrato dal popolo italiano, Mussolini ordinò per il 22 giugno una ripresa dell'offensiva su tutto il fronte, nel disperato tentativo di ottenere una vittoria sul campo e non essere così proclamato vincitore solo per la compiacenza di Hitler, che aveva generosamente subordinato l'entrata in vigore dell'armistizio franco-tedesco alla firma dell'armistizio franco-italiano. Dopo una giornata di intensi scontri, Mussolini non riuscì ad ottenere altro che qualche centinaio di perdite fra le sue truppe. L'appuntamento di Chambery rimase un miraggio.

Mentre a Roma regnavano delusione ed amarezza, a Bordeaux il governo francese si preparava ad ascoltare le richieste di Hitler. Al momento di partire per Parigi, il capo della delegazione francese, il Generale Huntziger, fu convocato dal Maresciallo Pétain che gli comunicò quali condizioni ritenesse assolutamente inaccettabili: la consegna totale o parziale della flotta (in cambio di rassicurazioni a tale proposito Pétain aveva appena ottenuto il riconoscimento de facto del suo governo da Londra); l'occupazione dell'intero territorio metropolitano; l'occupazione di una parte qualunque dell'Impero coloniale.
Hitler saggiamente non avanzò nessuna delle pretese sopra citate, ma non per questo rinunciò ai frutti della vittoria. Il testo presentato dal Generale Keitel alla delegazione francese era relativamente breve. I primi articoli riguardavano la cessazione delle ostilità e la creazione di una zona non occupata nel sud da Bayonne, Mont-de-Marsan, Angoulême, Poitiers, Tours, Vierzon, Moulins, Chalons-sur-Saône alla frontiera di Ginevra. Tutte le coste, ad eccezione di quella mediterranea, e le più ricche regioni industriali venivano così poste sotto il diretto controllo tedesco, imponendo all'amministrazione francese di mettersi al servizio dell'occupante. Anche Bordeaux venne inserita nella zona occupata, pertanto Ministri, Deputati e Senatori dovettero trasferirsi in tutta fretta nella graziosa cittadina termale di Vichy. Tale sistemazione da provvisoria divenne definitiva. Infatti al governo francese, che formalmente manteneva la sovranità sull'intero territorio, venne riconosciuto il diritto di porre la sua sede a Parigi, ma di fatto non poté mai avvalersene. Il Maresciallo non si oppose all'occupazione di Bordeaux poiché fu generosamente compensata dal ritiro delle truppe tedesche da Lione, Saint-Etienne, Clermont-Ferrand e Monluçon.
Gli articoli seguenti riguardavano le armi e la flotta. L'esercito doveva essere smobilitato, ad eccezione delle truppe destinate a mantenere l'ordine interno, cioè 100.000 uomini, lo stesso contingente che i tedeschi avevano avuto diritto a conservare dopo l'armistizio del 1918. Il governo francese doveva poi consegnare alle autorità militari tedesche tutte le armi richieste, anche quelle che si trovassero in zona non occupata, oltre a tutte le indicazioni relative ai campi minati ed alle fortificazioni. Le spese per il mantenimento delle truppe tedesche di occupazione erano a carico della Francia. Nei mesi successivi all'armistizio questa clausola si sarebbe rilevata pesantissima, fissando in 20 milioni di Marchi al giorno l'ammontare da corrispondere a Berlino, pari a 400 milioni di Franchi, al tasso di cambio esorbitante di 20 a 1.
Tutte le navi della flotta, salvo quelle necessarie al pattugliamento delle coste ed al dragaggio delle mine, dovevano essere disarmate ed ancorate nei loro porti. La Germania dal canto suo si impegnava a non utilizzare queste unità navali ed a non rivendicarle al momento della firma del trattato di pace. Inizialmente i tedeschi richiesero la consegna anche delle forze aeree, ma le argomentazioni di Huntziger che sosteneva che gli aviatori francesi avrebbero distrutto i loro velivoli piuttosto che consegnarli, li convinsero a recedere.
Una commissione d'armistizio, composta anche da una delegazione francese, fu istituita per risolvere eventuali controversie tra le parti e verificare l'applicazione delle clausole armistiziali.
Soltanto l'articolo 23, che subordinava l'entrata in vigore dell'armistizio franco-tedesco alla firma dell'armistizio franco-italiano, suscitò le proteste di Weygand e di Pétain, ma la fermezza di Hitler li convinse che non esistevano margini di trattativa. Sulla consegna alla Germania dei rifugiati tedeschi in Francia, Pétain non ebbe invece nulla da obiettare.
Alle 18,30 del 22 giugno la firma dell'armistizio tra Francia e Germania a Rethondes, nella foresta di Compiègne, costrinse Mussolini a rassegnarsi al ruolo umiliante di vincitore sconfitto sul campo, rinunciando alle trionfali pretese territoriali avanzate alla vigilia della guerra. Sapendo di poter ottenere soltanto ciò che fosse riuscito a conquistare, Mussolini tentò di sfruttare le poche ore a sua disposizione per far avanzare le truppe. I risultati ottenuti dall'ultima offensiva italiana del 23 giugno furono ancora una volta modestissimi, al prezzo però di perdite rilevanti. In due settimane di guerra la Francia ebbe 37 morti e 62 feriti, l'Italia 631 morti e 2.631 feriti. Inoltre, la sconcertante inadeguatezza dell'equipaggiamento della fanteria italiana provocò 2.151 casi di congelamento.
Nel pomeriggio del 23 giugno la delegazione francese, composta dall'Ambasciatore Noël e dal Generale Huntziger, giunse a Roma dove fu ricevuta dal Ministro degli Esteri Ciano e dal Capo di Stato Maggiore Badoglio. Il documento sottoposto ai francesi non conteneva rivendicazioni territoriali che avrebbero potuto indurre il governo di Bordeaux ad impuntarsi per salvaguardare l'onore francese, si limitava, oltre ad imporre la smilitarizzazione delle basi navali di Tolone, Biserta e Mers el-Kébir, ad assegnare all'esercito italiano l'occupazione dei territori conquistati per tutta la durata dell'armistizio. Tale clausola, dettata dalla prudenza, dal pudore e soprattutto dalla consapevolezza di non poter mettere in difficoltà l'alleato tedesco, consentì a Mussolini di trarsi d'impaccio, ma non mitigò certo la mortificazione subita dal regime fascista. Il 24 giugno anche l'armistizio italo-francese fu firmato ed entrò in vigore all'alba del giorno successivo.

Per quanto dolorosi gli armistizi segnarono per i francesi la fine di un incubo che sembrava destinato a sfociare nell'annientamento della Francia. La popolarità di Pétain ne uscì rafforzata. Seppur a caro prezzo, il Maresciallo si era mostrato capace di arrestare l'avanzata tedesca e di parare la pugnalata alle spalle italiana, salvando un brandello di sovranità, mentre la classe politica, la linea Maginot, l'Esercito e l'Aviazione avevano miseramente fallito.

Messe a tacere le armi, Pétain rivolse la sua attenzione a consolidare la sua posizione politica, creando le premesse istituzionali indispensabili per avviare la rigenerazione morale della Francia. Nelle ore tragiche della sconfitta e dell'umiliazione il suo costante riferimento storico divenne la Prussia, che aveva saputo sfruttare il disastro militare di Jena per risorgere in meno di un decennio più forte e più compatta di prima, conquistandosi un ruolo determinante nel crollo dell'impero napoleonico. Nel 1806 la Prussia aveva subito l'amputazione del suo territorio, aveva sopportato l'umiliazione dell'occupazione, ma tali sciagure si erano rivelate uno choc salutare, poiché erano state la fonte di una riforma morale, intellettuale e politica a cui avevano concorso tutte le élites: filosofi come Fichte, pensatori come Humboldt, poeti come Kleist, militari come Scharnhorst.
La lezione prussiana offriva una speranza per il futuro, ma occorreva al più presto innescare un processo di rigenerazione a partire dalle istituzioni politiche, dal momento che in esse era da ricercarsi, secondo Pétain, la causa prima della sconfitta.
In questo orizzonte politico non poteva trovare spazio nessuna ipotesi che contemplasse l'abbandono del suolo francese. Era assurdo pensare di risollevare la Patria ferita e mutilata stando dall'altra sponda del Mediterraneo. Nei giorni immediatamente precedenti l'armistizio il governo aveva preso in considerazione il trasferimento di alcuni Ministeri in Africa del Nord, il 21 giugno aveva persino consentito l'imbarco di 27 tra Deputati e Senatori sul piroscafo Massilia diretto ad Algeri, ma poi Pétain aveva imposto la sua visione politica, fondata sulla riorganizzazione dell'amministrazione, sulla riforma delle istituzioni e sull'elaborazione di una strategia affinché la Francia potesse sopravvivere in una Europa dominata dalla Germania.
Ispirato da Raphaël Alibert, suo amico e confidente sin dagli anni '30, e da André Tardieu, maître à penser della destra ed autore nel 1934 della fortunata opera Réforme de l'État, il Maresciallo individuò nella riforma costituzionale il primo atto necessario per troncare con il passato, ponendo rimedio alla degenerazione parlamentaristica della Terza Repubblica, che aveva contrapposto il numero alla competenza, la verità alla maggioranza, il bene comune al consenso elettorale. L'eliminazione dalla scena politica di personaggi nefasti come Reynaud e tutti i sostenitori della guerra jusqu'au bout, pur assumendo per Pétain i contorni di una ossessione, non era infatti da sola sufficiente a rigenerare la Francia. Occorreva prima di tutto rimuovere la cornice costituzionale in cui quei politici avevano prosperato, preparando il disastro della nazione.
Pétain non fu mai un Generale da colpo di stato. Nel corso degli anni '30, pur essendo critico verso il lassismo della politica francese, pur stigmatizzando i rischi di una avanzata delle sinistre, non si era mai mescolato ai golpisti dentro e fuori dell'esercito, in qualità di Padre della Patria aveva sempre dimostrato rispetto e deferenza verso i rappresentanti del potere costituzionalmente definiti. Ancora nel 1940 si era rifiutato di impegnarsi in qualsiasi sfida rivolta contro il potere costituito, aveva invece risposto con sollecitudine all'offerta di Reynaud di apportare il suo prestigio e la sua esperienza ad un governo vacillante, impegnato in una guerra in cui le possibilità di vittoria per la Francia gli apparivano remote. Pertanto, una volta assunta, nel pieno rispetto delle forme costituzionali, la carica di Presidente del Consiglio rifiutò ogni azione brutale contro il Parlamento, che pure disprezzava; preferì invece raggiungere l'agognato obiettivo dei pieni poteri sostenuto da un largo consenso degli organi rappresentativi.

Per ampliare e consolidare la sua maggioranza il Maresciallo si avvalse dell'abilità e delle relazioni di Pierre Laval, che incarnava la politica opposta a quella che aveva condotto al disastro. Fino al gennaio 1936 Laval si era distinto per la sua apertura verso la Germania ed aveva intessuto ottime relazioni con l'Italia fascista. Neppure l'impresa etiopica di Mussolini lo aveva convinto a smettere di considerare come prioritaria l'alleanza franco-italiana, ma il Parlamento non lo aveva assecondato, ponendo le premesse per quella definizione degli schieramenti destinata a generare la guerra in Europa. Alla vigilia del conflitto aveva fatto appello a Daladier affinché non cedesse alle lusinghe inglesi, condannando così la Francia alla catastrofe.
Tale coerenza trasformò Laval dopo l'armistizio nel politico lungimirante che avrebbe saputo risparmiare tante inutili sofferenze ai francesi e che ora pertanto meritava il massimo credito, insieme ad altri pacifisti di lunga data come Gaston Bergery, Marcel Déat e Jacques Doriot, che provenivano rispettivamente dai partiti radicale, socialista e
comunista. Dopo essere stati trai i primi promotori del Fronte Popolare essi ne erano diventati, una volta emarginati dai loro partiti, i più accesi avversari, ritenendo che il bellicismo antinazista delle sinistre sarebbe stato foriero di sciagure. Nel corso degli anni il loro pacifismo si era fatto sempre più aggressivo sino al punto da prendere le distanze da qualsiasi sentimento democratico. Ora che la Germania aveva trionfato essi ritenevano fosse venuto il momento di associarsi al vincitore, tagliando ogni legame con la tradizione democratica parlamentare.
Bergery, forte del sostegno di 95 Deputati e 2 Senatori, fu tra i primi a teorizzare l'instaurazione sotto l'egida del Maresciallo di un regime autoritario che, pur senza essere la copia servile del nazionalsocialismo, ne accogliesse l'essenza, costituendo una alternativa tanto allo stalinismo quanto alla plutocrazia. Laval fece da trait d'union tra l'antiparlamentarismo di Bergery, Déat e Doriot, animato da uno spiccato sentimento filotedesco, e le posizioni ultraconservatrici di Pétain e di Weygand.
Il 28 giugno 1940 il Generale Weygand indirizzò una nota al Maresciallo in cui tracciava il profilo ideologico del nuovo regime. Dopo aver ribadito che la responsabilità della sconfitta andava attribuita alle istituzioni repubblicane dominate dalle nefaste influenze della massoneria e del grande capitale, alla lotta di classe che aveva lacerato la nazione, al calo della natalità, che aveva indebolito l'esercito e spinto a naturalizzazioni massicce, Weygand indicava nella formula Dio, Patria, Famiglia e Lavoro i valori sui cui edificare la nuova Francia. Pétain non ebbe alcuna difficoltà a riconoscersi nelle parole del Generale, in cui echeggiavano le riflessioni politiche di Charles Maurras e dell'Action Française, ma non per questo accettò di condividere il potere con Weygand. Anzi rafforzò la sua convinzione di dover sfruttare l'abilità di manovra di Laval non solo per sbarazzarsi del Presidente della Repubblica Lebrun, ma anche per contenere l'ingombrante Weygand. Laval era infatti in grado di garantire al Maresciallo l'assegnazione, ad ampia maggioranza, da parte del Parlamento dei pieni poteri per riformare la costituzione, ponendolo così al di sopra di ogni altra autorità e quindi al riparo da ogni insidia al suo potere personale.
Per parte sua Laval, mosso dal desiderio di dimostrarsi indispensabile, spese tutte le sue energie per piegare la volontà del Parlamento, peraltro profondamente scosso dagli avvenimenti che si erano susseguiti dalla dichiarazione di guerra in poi. Tra Deputati e Senatori regnava la paura che li rendeva incapaci di opporsi alle pressanti richieste provenienti dal governo di spogliarsi del loro ruolo istituzionale. Da un lato essi si sentivano collettivamente responsabili del disastro che aveva conosciuto la nazione, dall'altro temevano che, se avessero rifiutato ciò che Laval, frettolosamente nominato il 27 giugno vice Presidente del Consiglio, chiedeva a nome del Maresciallo, i tedeschi avrebbero potuto violare l'armistizio e procedere alla completa occupazione del territorio francese. Molti parlamentari inoltre temevano anche per la loro stessa incolumità nel caso di una opposizione alla volontà di Pétain, tanto era cresciuto negli ultimi mesi l'antiparlamentarismo tra la popolazione prostrata dalla guerra.

De Gaulle che da Londra incitava alla resistenza contro la Germania e considerava illegittimo il governo Pétain non era in grado di raccogliere attorno a sé grandi consensi, né in Parlamento, né presso l'opinione pubblica. L'attacco ordinato da Churchill alla squadra navale francese ancorata nel porto algerino di Mers el-Kébir il 3 luglio 1940 aveva dato nuovo vigore all'anglofobia ed infangato l'immagine di De Gaulle che ora appariva un traditore al servizio dell'imperialismo britannico. Gli oltre 1200 marinai francesi sacrificati dal realismo politico di Londra costituivano una ulteriore prova di quanto l'alleanza franco-inglese, a suo tempo largamente sostenuta dal Parlamento, si fosse rivelata esiziale per la Francia. I margini di autonomia e di indipendenza del Parlamento all'inizio di luglio erano pertanto ridottissimi. L'unica figura che poteva effettivamente contare su di un largo consenso popolare era Maresciallo Pétain che continuava ad incarnare, per usare le sue stesse parole, la France éternelle.
Per non compromettere la sua aura di Padre della Patria, Il Maresciallo rimase in disparte rispetto al dibattito parlamentare, preferì affidarsi alla consumata arte oratoria di Laval che seppe rivolgersi alle paure ed alla cattiva coscienza dei rappresentanti della nazione. Nel suo discorso, pronunciato il 9 luglio di fronte alla Camera dei Deputati, esordì rinfacciando al Parlamento gli errori commessi: "Abbiamo lanciato una sfida con imprudenza, una criminale imprudenza, era la guerra della democrazia contro le dittature, bisognava abbattere il nazismo ed il fascismo. Abbiamo fatto di tutto per giungere alla guerra e non abbiamo trascurato nulla per perderla. Il più grande crimine che sia stato commesso nel nostro paese da molto tempo a questa parte è stato certamente aver dichiarato la guerra senza averla preparata, né sul piano militare né su quello diplomatico, l'Inghilterra ci ha trascinati e non ha fatto nulla per permetterci di riportare la vittoria.".
Dalla responsabilità delle Camere fece poi discendere la necessità di abrogare la costituzione del 1875. Un disastro come quello vissuto dalla Francia non poteva lasciar sopravvivere le istituzioni che lo avevano generato. Laval si spinse anche oltre, delineando il ruolo marginale a cui le assemblee rappresentative avrebbero dovuto rassegnarsi: "E' la condanna non solo del regime parlamentare ma di tutto un mondo che è stato e non può più essere. E' un impegno che prendo a nome del Maresciallo Pétain: un atto fisserà la nuova posizione del Parlamento. Le Camere sussisteranno fino a che non siano state create le Assemblee previste dalla nuova costituzione. Le Camere avranno una attività necessariamente ridotta. (.) E' sotto il triplice segno del Lavoro, della Famiglia e della Patria che noi dobbiamo dirigerci verso un nuovo ordine".
Riguardo poi ai rapporti internazionali, Laval non nascose che il futuro sarebbe stato caratterizzato dalla leale collaborazione con la Germania e con l'Italia: "Questa politica deve essere praticata nell'onore e con dignità. Io non provo alcuna pena ad usare questo linguaggio poiché questa collaborazione io l'ho voluta durante la pace. Rimpiango con tristezza di doverla fare all'indomani della sconfitta...".

Il progetto di revisione costituzionale proposto dal governo fu approvato dalla Camera con 395 voti favorevoli e 3 contrari e dal Senato con 229 voti favorevoli ed uno solo contrario. Neppure i Presidenti della Camera e del Senato, Herriot e Jeanneney, che avrebbero dovuto salvaguardare la dignità e l'autonomia del Parlamento, si astennero dal rendere omaggio al Maresciallo Pétain.
Le altre due mozioni, quella presentata dai Senatori ex combattenti stretti attorno a Taurines che proponeva di sospendere senza dibattito la costituzione del 1875 ed assegnare a Pétain i pieni poteri per gettare le basi di una nuova carta costituzionale con il concorso di Camera e Senato e quella del Deputato radical-socialista Badie in cui si riconoscevano gli irriducibili repubblicani, non ottennero che una cinquantina di voti.
Affossata la costituzione del 1875, restava da definire come e quando sarebbe stato redatto il nuovo testo costituzionale. Il disegno di legge presentato dal governo il 10 luglio sciolse tutti i nodi irrisolti. L'articolo unico recitava: "L'Assemblea Nazionale assegna ogni potere al governo della repubblica, sotto l'autorità e la firma del Maresciallo Pétain, allo scopo di promulgare attraverso uno o più atti una nuova costituzione dello Stato francese. Tale costituzione dovrà garantire i diritti del lavoro, della famiglia e della patria. Essa sarà ratificata dalla Nazione ed applicata dalle Assemblee che avrà creato".
Ancora una volta il Parlamento, riunito in seduta comune nella sala del casinò di Vichy, si piegò al volere del Maresciallo. Il disegno di legge fu approvato con 569 voti favorevoli, 80 contrari e 17 astenuti.
Il testo non specificava un calendario, tuttavia rispondeva all'universale desiderio di un cambiamento immediato. Il Maresciallo Pétain, che nell'estate del 1940 era tutt'altro che senile, ma anzi lucido, dinamico e determinato, non deluse le aspettative. Tra l'11 ed il 12 luglio promulgò i primi tre atti costituzionali. Si proclamò Capo di Stato, riconoscendosi il pieno controllo sulle forze armate ed il diritto di grazia e di amnistia; rese i Ministri ed i Segretari di stato responsabili esclusivamente davanti a lui; sospese la Camera ed il Senato sine die; designò Pierre Laval come suo successore in caso di impedimento prima della ratifica da parte della nazione della nuova costituzione.


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MessaggioInviato: 17/10/2016, 20:14 
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Grazie Riccardo delle informazioni raccolte più che esaustive su un fatto da me completamente ignorato. Interessante poi il saggio di Roberto Poggi che valuta obiettivamente il comportamento di Petain che seppe comportasi in maniera dignitosa rispetto per es. a certe nostre figuracce ( vedi 8 settembre ). Una buona base storica per studiare le vicende della posta militare nelle zone occupate di cui si sono occupati Astolfi e Sirotti negli ultimi 7 numeri della rivista ( 133-139) . Storia e posta militare non possono che viaggiare insieme. Cordiali saluti aldo121


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aldo121 ha scritto:
Grazie Riccardo delle informazioni raccolte più che esaustive su un fatto da me completamente ignorato. Interessante poi il saggio di Roberto Poggi che valuta obiettivamente il comportamento di Petain che seppe comportasi in maniera dignitosa rispetto per es. a certe nostre figuracce ( vedi 8 settembre ). Una buona base storica per studiare le vicende della posta militare nelle zone occupate di cui si sono occupati Astolfi e Sirotti negli ultimi 7 numeri della rivista ( 133-139) . Storia e posta militare non possono che viaggiare insieme. Cordiali saluti aldo121

Prego! Aldo e volevo solamente aggiungere che il volantino in tuo possesso è molto raro, in quanto da una testimonianza si afferma addirittura che: "... il volo di aerei francesi su Roma nel Giugno 1940 con relativo lancio di volantini. Solamente che la mattina dopo la città già era stata ripulita dagli spazzini, per cui non è stato possibile conoscere il contenuto dei suddetti..." Probabilmente se ne sono salvate poche copie, sfuggite alle loro ramazze. Distinti saluti Marangoni Riccardo.


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